Hurrà Grigi

Quindicinale di calcio e non solo

La lezione dei Bad Religion

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E’ davvero difficile spiegare chi sono i Bad Religion a chi non li conosce.

Basti pensare che sono attivi dal 1979 (quando erano poco più che quindicenni), che nell’arco di oltre 35 anni di carriera hanno dato alle stampe 17 dischi, oltre ad una manciata di live e raccolte, che hanno, di fatto, scritto e dettato i canoni dell’hardcore melodico, che hanno creato un’etichetta discografica (la Epitaph Records) che di tale sottogenere si è fatta portabandiera e che, ancora oggi – splendidi ultracinquantenni – dal vivo spaccano dei culi che il 90% delle band contemporanee se li sognano.

Mercoledì 2 settembre ne hanno dato ulteriore prova al Live di Trezzo: un live adrenalinico, della durata di 85 minuti scarsi, in cui hanno proposto la bellzza di 35 brani.

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La velocità come filosofia, insomma.

Ma anche filosofia vera e propria, grazie ai testi di Greg Graffin (che ha ben due cattedre universitarie: una di scienza della vita all’Università di Los Angeles ed una di paleontologia a quella di Ithaca); testi che rispecchiano ora il disagio adolescenziale del giovane punk (nei brani tratti da lavori quali “Suffer” e “No Control”) ora l’acuto spirito critico (spesso velato di nichilismo) dell’intellettuale moderno e post ideologico.

La band parte subito fortissimo con “Spirit Shine” ed assesta un primo colpo da ko a partire dal quinto pezzo con un trittico da brividi (“Stranger than Fiction”, “Against the Grain” e “Recipe for Hate”) che ha il merito di riscaldare l’atmosfera, che letteralmente esplode ai primi accordi di “Skyscraper”.

La band californiana è un meccanismo perfettamente oliato e non sbaglia un colpo: la sezione ritmica composta da Jay Bentley al basso e Brooks Wackerman alla batteria è una macchina da guerra, le chitarre di Brian Baker e Mike Dimkitch (che sostituisce nei live Brett Gurewitz) intrecciano melodie perfette e Graffin canta esattamente come vent’anni fa, senza perdere una nota né una parola.

Dopo un altro trittico devastante (“Delirium of Disorder”, “Do What You Want” e “21th Century Digital Boy”), Graffin ci ricorda che i Bad Religion sono diventati adulti nel 1989, grazie ad un disco che si chiamava “No Control” e che iniziava, ci ricorda, con “Change of Ideas”, che ci travolge, così come fanno i successivi sette brani (tra cui le “You” e “I Want to Conquer the World”) tratti da quel capolavoro.

Dopo 26 pezzi, sappiamo che la festa sta per finire: “Sorrow” (unico pezzo quasi lento della serata, con le sue atmosfere reggae), “Infected”, la sempre più attuale “Punl Rock Song” e Watch it die” chiudono infatti il set principale.

C’è ancora spazio per un paio di bis, con il gran finale di “American Jesus”, il cui riff killer mi aveva folgorato 22 (ahimé) anni fa, facendomi innamorare di uno dei gruppi più grandi di sempre.

Confesso che non volevo andare: la paura di trovare una band stanca o arrangiamenti stravolti era davvero tanta. All’uscita, invece, oltre a cercare di capire quale parte del corpo non mi stia facendo male, mentre mi compro l’immancabile maglietta del concerto, non posso che ringraziare chi mi ha convinto ad accompagnarlo fin qui.

 

 

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