Hurrà Grigi

Quindicinale di calcio e non solo

PASSI NEL MONDO

scHo un paio di scarpe per girare il mondo. Sono per me come i capelli di Sansone furono per lui: la forza e il coraggio. Le stesse di sempre, un po’ logorate dall’uso, ma le sole, le mie inseparabili compagne di viaggio sempre pronte ad accogliere una nuova sfida. Con loro ho macinato chilometri su migliaia di strade del globo, accumunando mondi opposti, distanti o vicini che fossero, dal senso stesso del viaggio. Col tempo si sono modellate ai miei piedi perfettamente, prendendone la forma e con essa anche il diritto a trasmettermi quell’incauta disinvoltura che un viaggiatore deve avere con sé percorrendo le strade del mondo. Hanno calpestato il suolo di innumerevoli luoghi, alcuni solo sfiorati sul rullo di un tapis roulant dentro un anonimo aeroporto. Hanno. scalato montagne, camminato dentro le acque di un fiume, marciato dentro le sabbie del deserto senza mai arrendersi, visitato città, borghi e favelas. Hanno passeggiato lungo la riva del mare lasciandosi bagnare delle impertinenti onde per poi asciugarsi al sole di una spiaggia tropicale. Tuttavia hanno goduto anche di riposo, sotto una palma ondeggiante nel vento e di ristoro con le stringhe slacciate, al tavolo di un bar davanti a una fresca birra spillata. Non hanno mai subito battute d’arresto. Nemmeno al posto di blocco del confine tra Guatemala e Honduras le mie scarpe si fermarono. Anche in quel frangente proseguirono passo dopo passo oltrepassando la frontiera, efficienti più del pick up su cui viaggiavo che dovette fare marcia indietro. E pensare che, tra i tanti tipi proposti, in fila sugli scaffali del negozio, non era su di loro che avevo messo gli occhi. Ero incerta sulla loro tenuta. Mi apparivano così delicate e fragili! Mi sembrava alquanto improbabile che resistessero alle turbolenze dei viaggi sapendo in cuor mio che non avrei fatto loro sconti né risparmiato su alcun tipo di prova. Temevo strada facendo in un cedimento o scollamento che fosse. Rimisi la decisione nelle mani della commessa e seguendo il suo consiglio e anche un po’ il detto “chi disprezza compra” finii per portarle a casa. Per inaugurarle fu deciso l’Egitto. Serviva loro un periodo di collaudo e non di viaggi ardui e al limite del possibile: quelli sarebbero venuti più tardi. Le piramidi erano il giusto compromesso tra avventura e facilità di spostamenti senza doversi spingere tanto oltre . Arrampicarsi su quei mastodontici parallelepipedi di calcare fu un’impresa divertente, e al tempo stesso il modo adeguato per metterle alla prova. Il loro peso piuma, unito all’attrito che imprimevano sui macigni di pietra, agevolava la scalata. Era come non averle ai piedi. Inoltre, se messe a confronto con le dimensioni delle pietre in questione, sembrava si riducessero sino a scomparire. In quegli istanti, a tu per tu con il mistero delle piramidi, non era affatto azzardato credere, scusate la divagazione, che qualcosa di sovrannaturale risiedesse in quelle solenni costruzioni che sfuggivano per grandezza a ogni logica terrena, come qualcuno aveva di fatto ipotizzato tempo fa. Lo pensai fermamente. Negli anni successivi di viaggi ne seguirono molti e importanti; di conseguenza l’uso delle scarpe si fece più assiduo. Ne conseguì la necessità di riservare loro un trattamento di prim’ordine. Dedicai loro, sempre alla fine di ogni viaggio, una cura meticolosa. Le pulivo alla perfezione e le proteggevo ingrassandole regolarmente per mantenerle efficienti a lungo. Con il tempo entrarono a far parte del bagaglio indispensabile di ogni mia partenza. Ah se potessero soltanto raccontare tutte le esperienze che hanno raccolto sotto le suole in giro per il mondo! Ne vantano davvero moltissime e altrettante sono attese per il futuro. Tra le tante che io ricordi, ve ne sono alcune di cui non vado affatto fiera e che, per ragioni del tutto indipendenti dalla mia volontà ho lasciato che subissero sulla propria pelle. Le ho sottomesse alle regole del Corano abbandonandole fuori dalle moschee, buttate a caso tra le montagne di scarpe, e ho precluso loro la possibilità di accarezzare la morbidezza dei tappeti che ricoprono all’interno i pavimenti dei templi. Le ho maltrattate nei bagni del mercato di Chichicastenango in cui non metterò mai più piede. Poverette, le insudiciai fino al midollo di liquame fetido. Si incollavano al pavimento su cui ristagnava un pestilenziale pantano di escrementi umani, ma anche in quel caso tennero testa alla situazione e, ben piantate a terra, mi preservarono da ogni eventuale caduta. Senza di loro non sarei più la stessa. Hanno assorbito il colore dei luoghi e serbato di ognuno l’impronta. Conservano tra gli strati più interni del cuoio piccoli granelli di sabbia e di salsedine, recano le ferite inferte dalle asperità della roccia e i segni dei ciottoli dei fiumi che ho guadato. Anche i fili d’erba dei prati in cui cammino quando vago in cerca di tranquillità hanno lasciato piccoli e impercettibili tagli e il fango, quello che viene dopo la pioggia, nei sentieri silenziosi della mia terra ha mutato loro il colore. Tuttavia sono i passi a spasso per il mondo il segno tangibile meno evidente ma più rilevante. Sono quei passi che faccio con loro a sottoscrivere, ogni qualvolta le indosso, la mia trasformazione in viaggiatrice impenitente senza macchia e senza paura.

 

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