Hurrà Grigi

Quindicinale di calcio e non solo

è morto arrigo dolso, piede sinistro di dio

Grigi-1972-73E’ morto questa mattina, all’età di 68 anni, Arrigo Dolso, uno dei protagonisti dell’indimenticabile, grande Alessandria, quella che nel 72/73 ci regalò l’ultima promozione in serie B (nella foto di “museo grigio”). La sua leggenda è legata ad uno storico tunnel fatto ad una icona del calcio come Ruud Krol nel corso di un’amichevole. Dolso aveva un talento straordinario, un modo di toccare il pallone che gli meritò, a Roma sponda laziale, l’appellativo di piede sinistro di Dio. Un genio incompreso, che raccolse molto poco rispetto al suo infinito talento. Chiunque lo abbia visto giocare, chiunque ami il calcio, non lo potrà dimenticare.Questo il suo ricordo, in un pezzo di Stefano Boldrini apparso sul bellissimo sito “Storie di calcio”.ARRIGO DOLSO
TUNNEL A KROL E DOLCE VITA
«Non passavo mai il pallone, non sopportavo i ritiri estivi.
La musica era una mania. Come le donne».
«Il giocatore più forte che ho conosciuto è Rivera»
Eccolo. Dritto come un albero, sul molo di Portoferraio, magro come allora, i capelli abbondanti
come allora, il sorriso da ingenua canaglia come allora…
«Sono venuto quaggiù nel 1984, quando smisi di giocare. Avevo bisogno di un’isola, di un
rifugio. Il mare c’entra poco, a malapena mi tengo a galla».
«Da bambino trascorrevo i pomeriggi nel cortile di casa ad inseguire il pallone. Giocavo scalzo
o con le pezze che avvolgevano i piedi. Nel ’60, entrai nelle giovanili dell’ Udinese. Nel ’66, mi
acquistò la Lazio, pagando una bella somma, 95 milioni. A Roma rimasi fino al ’71. Mi ritirai
nell’84. Avevo 38 anni, ma continuai a giocare con gli amici. Anche ora, tre volte a settimana mi
diverto con il calcetto».
dolso
Divertirsi: è stato il filo conduttore dell’ esistenza di Dolso. Aveva un piede sinistro che incantava.
Aveva talento. Ma doveva divertirsi. «Ero innamorato della vita e per me la vita è sempre stata
pallone, musica e donne. Non passavo mai il pallone, era più forte di me, ma i compagni si
arrabbiavano. Feci il militare con Zoff e Riva. Nelle partite in caserma, Riva non voleva mai
stare in squadra con me: “Sei un fenomeno, ma non passi il pallone”. La sera non riuscivo a
restare a casa. Andavo al Piper. Sono cresciuto insieme con Patty Pravo e Rocky Roberts. E se
non era il Piper, andavo in via Veneto. E se non era via Veneto, andavo ai concerti. Mi
piacevano i Beatles, i Bee Gees, Mina e Adriano Celentano».
«Indossavo camicie a fiori d’estate e camicie a coste di velluto d’inverno. Quando arrivavo agli
allenamenti, l’allenatore, l’argentino Lorenzo, mi diceva “stanotte in che complesso hai
suonato?”. La musica era una mania. Come le donne. In sede mi arrivavano centinaia di lettere
e io rispondevo a tutte le ragazze, fissando un appuntamento. Non sopportavo i ritiri estivi.
Due settimane a correre per i boschi, forse per questo odio correre. Non ci facevano mai toccare
il pallone. Io protestavo “quand’è che ci date l’oggetto misterioso?”, lo chiamavo così. E poi
quella clausura, quelle costrizioni. Una volta arrivai in ritiro con qualche giorno di ritardo. A
cena i compagni di squadra mi dissero, “stasera, Arrigo, si va al cinema”. Mi portarono all’
ultimo piano dell’ albergo, salimmo sul tetto e ci mettemmo a sbirciare le finestre del palazzo
di fronte. C’erano delle ragazze. Mezz’ora dopo sentimmo un bisbiglio. Era il portiere dell’
albergo che ci chiamava. Gli inquilini del palazzo di fronte avevano chiamato i carabinieri. Ci
portarono nella hall e l’allenatore mi disse “sei appena arrivato e già combini casini”».
«Il mio modello era Mariolino Corso, portavo i calzettoni
abbassati come lui. Ma il giocatore più forte che ho conosciuto
è Rivera. Ad Alessandria si parlava solo di lui. Già, Alessandria,
dove scoprii la pittura. Mi comprai la tavolozza, i colori e
cominciai a dipingere. Se dovevo finire uno schizzo, tardavo
persino agli allenamenti. Ma ormai mi ero calmato, mi ero
sposato con Marisa ed era nata Talitha, un nome aramaico».
«Avevo un debole per il tunnel. Lo feci anche a Krol,
l’olandese, per vincere una scommessa. Avevo 35 anni e
giocavo a Grosseto. Per me il calcio era arte. Come quel gol
che rifilai al Torino, nel 1970: dribblai due avversari e tirai da
trenta metri. Castellini neppure vide il pallone. Potevo fare
grandi cose, ma si vive solo una volta e ho cercato di vivere a
modo mio. Non ho problemi, possiedo un bar e ho la
pensione. Vorrei insegnare calcio ai bambini, ma c’è la crisi e
tagliano i vivai. Peccato, la vita continua».
E Arrigo Dolso continua a sorridere alla vita, e continua ad
incantarsi. Come il giorno in cui sbarcò a Roma, nell’estate 1966.
La sera si era già perso. Fece l’alba scoprendo Roma, Roma della
dolce vita, come dolce è stata la vita di Dolso Arrigo di San
Daniele del Friuli, figlio di un operaio e degli stenti del
dopoguerra. Forse per questo ha voluto godersi la vita senza
rimpianti. Se la gode ancora: negli occhi della sua Marisa –
bellissima – nei sorrisi degli amici, nei suoi tunnel di calciatore in
pensione.
Testo di Stefano Boldrini
LA SCHEDA:
Arrigo Dolso è nato a San Daniele del Friuli (Udine) il 12 novembre 1946. Trequartista, mancino,
cominciò a giocare nell’ Udinese. Debuttò in serie C nella stagione 1964-65. Nel 1966 il grande salto:
la Lazio lo acquistò per 95 milioni. Con la maglia biancoceleste, Dolso debuttò in serie A. Restò
tre anni a Roma, poi il passaggio a Monza, in serie B. Nel 1970 il ritorno a Roma, fino al novembre
’71 quando fu ceduto al Varese, in A. Dolso giocò anche ad Alessandria, Benevento, Trapani e
chiuse la carriera a Grosseto, nell’84. In serie A ha giocato 52 partite e ha segnato tre gol.

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