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Sedici anni dopo, le frustate dei Blur sono ancora magiche

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Sono passati sedici anni dalla pubblicazione di “13”, il sesto disco dei Blur e l’ultimo che ha visto all’opera il quartetto inglese al gran completo.

Il successivo “Think Tank” era stato pubblicato dopo il polemico abbandono di Graham Coxon e molti lo considerano uno dei mille esperimenti solisti di Damon Albarn.

Albarn e Coxon si sono riavvicinati alcuni anni dopo, i Blur hanno ricominciato a fare concerti in tutto il mondo e, immancabilmente, hanno iniziato a rincorrersi voci su un un nuovo lavoro, interamente composto di inediti.

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E così, a febbraio, quando nessuno se l’aspettava, è arrivato l’annuncio che ad aprile sarebbe uscito “The Magic Whip”, lavoro che, pur senza far gridare al miracolo,  rappresenta, certamente, una scommessa stravinta per la band. 

E’ sufficiente la partenza al fulmicotone di Lonesome Street” per ritrovare quelle schitarrate tanto semplici quanto immediate, da sempre marchio di fabbrica di Coxon, per ritrovarsi catapulati agli anni d’oro di “Parklife”, mentre “Go Down” rimanda a “Blur” (1997), con le sue sonorità lo-fi ed il testo così malinconico (“Dancing with myself, I get into my bed, I do it to myself”).

In “New World Tower” emerge invece, prepotente, il lavoro svolto in fase di produzione e composizione di Graham Coxon e Stephen Street ed allora si capisve che “The Magic Whip” è forse una creatura legata più al chitarrista che non ad Albarn.

In ogni caso, il fatto che i rapporti tra loro, dopo le incomprensioni passate, si siano finalmente normalizzati, è confermato da “My Terracotta Heart” (titolo di canzone dell’anno), una sentitissima dedica di Albarn al vecchio amico, un brano così profondo nelle intenzioni da avvicinarsi alla struggente “No Distance Left to Run” (“When we were more like brothers, but that was years ago…Is something broke inside you, ’cause at the moment I’m lost and feeling,  that I don’t know If I’m losing you again”).

In generale è presente un senso di inquietudine che trasuda da quasi tutti i brani, come nella marcia scandita dalle percussioni di Dave Rowntree e dal basso di Alex James su “There Are too Many Of Us”, ispirata alla permanenza di Albarn a Sydney nel giorno della strage avvenuta a dicembre 2014, ma anche (come intuibile dal titolo) allo sconcerto provato dall’artista britannico di fronte alla densità altissima della popolazione di Hong Kong, o lo scenario apocalittico (“’cause the desert has approached the places where we heading”) raccontato nella bellissima “I Thought I Was A Spaceman”.

Ancor più oscura e pesante l’atmosfera sci-fi di “Pyongyang” e probabilmente la traccia più ricercata del disco, il cui testo sembra rappresentare una protesta contro Kim Jong-un: “And the pink light that bathes the great leaders is fading”.

Trascinanti, invece, sono tanto il beat hip hop di “Ice Cream Man” e quanto l’appiccicoso ritornello di Ong Ong”, mentre una menzione a parte merita “Ghost Ship”, una dolce ballata d’amore, un episodio riuscitissimo dall’intenso sapore di classico, estremamente avvolgente nel suo andazzo reggae/funk.

Il finale è affidato alla chitarra tremolante di Coxon che gigioneggia su “Mirrorball”, al termine della quale ci si sente più che soddisfatti nell’aver ritrovato, dopo tanto (troppo) tempo, quattro vecchi amici.

 

 

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